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I monologhi da Medea


lunedì 28 maggio 2012 Introduce Margaret Collina insieme a Rita Galbucci, Paola Padovani, Alessandro Dall’Olio   

“Un uomo, quando è stanco di starsene in famiglia, esce, evade dalla noia, si ritrova con amici e coetanei; noi donne, invece, siamo costrette ad avere sotto gli occhi sempre un’unica persona. Si blatera che conduciamo una vita priva di rischi, tra le mura domestiche, mentre i maschi vanno a battersi in guerra. Che assurdità!
Preferirei cento volte combattere che partorire una volta sola.”

Da: Euripide, Medea, traduzione a cura di Umberto Albini
I MONOLOGHI 
Donne di Corinto, eccomi, sono uscita dal palazzo: così non avrete nulla da rimproverarmi. So di molti che sono passati per superbi, sia in questo sia in altri paesi: erano gente riservata, e invece si sono acquisiti la brutta nomea di persone insensibili. Ma non si può giudicare in modo obiettivo quando ci si sofferma all'apparenza: bisogna conoscere l'animo di una persona a fondo e non odiarla a prima vista, senza che ci abbia inflitto alcun torto. Certo, uno straniero deve adattarsi agli usi del paese che lo ospita, ma non lodo davvero un nativo arrogante che si renda antipatico ai suoi concittadini perché è un incivile. La sciagura inattesa che si è abbattuta su di me mi ha schiantato, ha distrutto la mia esistenza. Non provo più gioia a vivere, desidero solo la morte, amiche mie. Lo riconosco, il mio sposo era tutto per me e mi si è rivelato il peggiore degli individui.

Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate. Intanto, dobbiamo comprarci con una robusta dote un marito, anzi prenderci un padrone del nostro corpo, che è malanno peggiore. Ma anche nella scelta c'è un grosso rischio: sarà buono o cattivo, il marito che ci prendiamo?
Tra l'altro la separazione è infamante per una donna e di ripudiare un marito neanche se ne parla. E poi, una donna che entra in un nuovo ambiente, dove esistono norme e abitudini diverse, deve essere un'indovina - certo non lo ha imparato a casa - per sapere con che compagno dovrà passare le sue notti. Mettiamo che i nostri sforzi vadano a buon fine, che lo sposo sopporti di buon grado il giogo del matrimonio: allora sì che l'esistenza è invidiabile. Ma in caso contrario, è meglio morire. Un uomo, quando è stanco di starsene in famiglia, esce, evade dalla noia, si ritrova con amici e coetanei; noi donne, invece, siamo costrette ad avere sotto gli occhi sempre un'unica persona. Si blatera che conduciamo una vita priva di rischi, tra le mura domestiche, mentre i maschi vanno a battersi in guerra. Che assurdità!
Preferirei cento volte combattere che partorire una volta sola.
Ma questo è un discorso che riguarda me e non te. Tu vivi nel tuo paese, a casa tua, con tutti gli agi, in mezzo agli amici. Io sono sola, priva di patria, sottoposta agli oltraggi dell'uomo che mi ha portato via come preda da una terra di barbari. Mi trovo in una situazione disperata, e non mi possono salvare madre o fratello o parenti. Un'unica cosa ti chiedo: non aprire bocca, se trovo un mezzo, un espediente per ripagare del male che mi ha fatto mio marito [e sua moglie e suo suocero]. Una donna in genere è piena di paure, è vile di fronte all'azione violenta, e alla vista di un'arma.
Ma quando ne calpestano i diritti coniugali, non esiste essere più sanguinario di lei.
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Sì, la situazione è orribile, sotto ogni aspetto: è fuori discussione. Ma non crediate che la faccenda finisca così.
Sussistono dei rischi anche per la giovane coppia delle difficoltà non lievi per il suocero. Credi davvero che avrei tanto blandito quell'individuo, se non avessi avuto un interesse, uno scopo particolare? Altrimenti, non gli avrei neppure rivolto la parola, non lo avrei toccato con le mie mani. Si è rivelato così sciocco! Aveva la possibilità di stroncare sul nascere i miei disegni espellendomi dal paese e invece mi ha concesso di restare ancora un giorno: e in questo giorno io stenderò morti tre dei miei nemici, il padre, la figlia e mio marito. Avrei vari mezzi per sopprimerli: ma esito, amiche: a quale devo dare la preferenza? Potrei appiccare fuoco all'abitazione degli sposi, oppure penetrare furtivamente nella stanza dove han preparato il loro letto e piantare una spada affilata nelle viscere di quei due. Ma c'è un punto che mi trattiene. Se mi sorprendono mentre cerco di introdurmi in casa, con cattive intenzioni, verrò uccisa e i miei nemici rideranno di me. È meglio ricorrere alla via più spiccia, all'arte in cui sono maestra: li eliminerò con il veleno... Li vedo già morti stecchiti. Sì, ma dopo? Ci sarà una città pronta ad accogliermi? E un ospite deciso a offrirmi asilo nella sua terra, protezione nella sua casa? Non ce n'è nessuno. E allora mi conviene pazientare un po': se intravedo un saldo riparo, andrò sino in fondo, li ucciderò, di nascosto e con l'inganno. E se mi si prospetta una sventura senza rimedio, con la spada in pugno, anche a costo di morire, li ucciderò entrambi, avrò il coraggio dell'aperta violenza.
Giuro per Ecate, la dea che venero più di tutte, che ho scelto perché sia al mio fianco, che abita nelle mie stanze più segrete: nessuno di loro si rallegrerà di avermi fatto soffrire. Renderò amare e luttuose le loro nozze, amaro il nuovo legame di famiglia e il mio esilio.
Animo, Medea: non rinunziare a nessuna delle tue arti, adopera tutti gli accorgimenti che conosci. Affronta questa impresa: ora è il momento di mostrare la tua tempra. Vedi cosa ti hanno fatto. Non devi costituire oggetto di scherno per i discendenti di Sisifo e alle nozze di Giasone; tu sei nata da nobile padre, sei progenie del Sole. L'abilità la possiedi, e inoltre siamo donne; incapaci, per natura, di fare del bene, ma espertissime in ogni specie di male.
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Miserabile, miserabile; non mi viene in mente niente di più ingiurioso per definire la tua vigliaccheria: e tu hai il coraggio di presentarti da me, tu l'essere più odioso [agli dèi, a me e a tutta la razza umana]? Non è una prova di coraggio, di audacia guardare in faccia gli amici a cui hai fatto del male: è invece un'impudenza, è la peggior tabe che ci sia al mondo. Ma hai fatto bene a venire qui: mi sentirò più leggera dopo averti detto cosa penso di te, e per te sarà un tormento starmi a sentire.
Comincio sin dal principio. Fui io a salvarti la vita - e lo sanno bene tutti i Greci che si erano imbarcati con te sulla nave Argo - quando fosti mandato ad aggiogare i tori che spiravano fuoco e a seminare il campo della morte. E il drago insonne che custodiva il vello d'oro nel groviglio delle sue molte spire lo uccisi io, io feci risplendere per te la luce della salvezza. Tradii mio padre, la mia casa, per venire con te a Iolco, la città sotto il Pelio: avevo dato retta all'impulso, non alla ragione. E uccisi Pelia, nel modo più straziante, attraverso le sue figlie: ti liberai così di ogni paura. E dopo aver avuto tutto questo da me, tu, creatura abietta, mi hai tradito, sei andato a cercarti un'altra moglie. E avevi già dei figli. Vedi, se non c'erano di mezzo dei bambini, forse ti avrei anche perdonato questa frenesia per il letto di un'altra. La fede giurata è svanita nel nulla, e non riesco a capire se gli dèi di un tempo non esistono più, secondo te, o se pensi che oggi tra gli uomini valgono nuove leggi. Perché di avermi giurato il falso lo sai, no?
La mia mano, quante volte l'hai stretta! Quante volte mi hai stretto le ginocchia! Era tutta un'ipocrisia, vigliacco, e le mie speranze come sono andate deluse! Va bene, mi rivolgerò a te come a una persona cara (non che io mi aspetti qualcosa da uno come te. Ma non importa: le mie domande metteranno a nudo la tua malvagità). Dimmi, dove mi rifugio ora? Da mio padre, nella casa che ho tradito, come ho tradito il mio paese per venire qui? O dalle povere Peliadi? Sai che bell'accoglienza farebbero a chi le ha spinte a uccidere il padre. Così stanno le cose: per i miei familiari sono una nemica, e le persone a cui non avevo bisogno di fare del male, grazie a te, me le trovo nemiche. In cambio, tu mi hai reso felice agli occhi di molte donne greche: ma che marito meraviglioso e fedele ho io, povera disgraziata, se devo andarmene in esilio, via da questo paese, senza un amico, sola con i miei figli soli: che vergogna per il novello sposo vedere sbattuti qua e là per il mondo come straccioni i suoi figli e la donna che gli ha salvato la vita. Zeus, tu hai dato agli uomini un mezzo sicuro per capire se l'oro è autentico: perché il malvagio non porta impresso sul corpo un marchio che lo contrassegni?
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O Zeus, giustizia di Zeus, luce del Sole, ora gloriosamente trionferò sui miei nemici, la strada, l'ho già imboccata: ora c'è davvero speranza che i miei nemici paghino. Quest'uomo, infatti, è apparso nel momento della mia maggior pena, ed è un porto per i miei progetti: lì attraccherò la nave, una volta giunta alla città e alla rocca di Pallade. E adesso ti spiego per filo e per segno i miei piani: ascolta questo discorso che non ti darà gioia. Manderò un servo da Giasone per pregarlo di venire da me; e appena arriva gli parlerò con dolcezza, gli dirò che sono d'accordo, e che questo matrimonio con la figlia di un re, e il tradimento, va bene, mi sembrano tutte decisioni utili e ben ragionate. E poi gli chiederò che i miei figli rimangano a Corinto: e non perché intendo abbandonarli in una terra ostile, soggetti alle offese dei nemici, ma perché voglio uccidere la figlia del re, e con un inganno. Li manderò a portare dei doni alla sposa, un peplo molto fine e una corona d'oro, perché non li cacci da Corinto. Se prende questi ornamenti e se li mette, morirà in un modo atroce, lei e chiunque la tocchi; li intriderò, infatti, in veleni potentissimi. Non posso continuare questo discorso; piango pensando a quello che dovrò compiere dopo: ucciderò i miei figli, e nessuno potrà strapparli alla morte. Una volta distrutta l'intera casa di Giasone, me ne andrò via, in esilio, per la strage dei miei adorati figli, per avere osato il più sacrilego dei misfatti. Ma che i nemici ridano non è tollerabile, amiche. Sia come sia. Ma allora, cosa mi serve vivere? Non ho patria, non ho casa, non ho rimedio per le mie sventure. Che errore aver lasciato le case paterne, essermi fidata delle chiacchiere di un Greco che me la pagherà, se Dio mi aiuta. Non vedrà mai più vivi, per il resto dei suoi giorni, i figli che gli ho dato io e non ne avrà dalla novella sposa, perché lei, l'infame, deve morire in maniera infame per i miei veleni. Nessuno mi creda una donnetta da poco, fragile, remissiva: è tutto il contrario; sono implacabile contro i nemici, benigna con gli amici. Chi è fatto così si garantisce fama e gloria.
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E così farò. Ma entra in casa, occupati dei ragazzi, delle cose di cui hanno bisogno tutti i giorni. Creature, creature mie, ormai avete una città, una casa dove abiterete per sempre, senza vostra madre, che resta abbandonata nella sua sventura. Io me ne andrò esule in un altro paese, prima di godere di voi, di vedervi felici, di festeggiare il vostro matrimonio, la sposa, di allestire i lavacri nuziali, di levare in alto le fiaccole accese. Il mio maledetto orgoglio mi sta rovinando. Vi ho allevato inutilmente, figli, inutilmente ho penato, mi sono macerata di fatiche, dopo avere sopportato gli aspri dolori del parto. Quante speranze avevo riposto in voi, un tempo; mi immaginavo, povera disgraziata, che mi avreste assistito nella mia vecchiaia, che da morta mi avreste seppellito pietosamente con le vostre mani; una sorte invidiabile agli occhi della gente. Ma è svanita l'illusione che accarezzavo. Priva di voi, condurrò una vita triste e angosciata. Non rivedrete più, davanti agli occhi, vostra madre: voi passate a un altro tipo di esistenza. Ma perché, perché mi guardate in questo modo? Perché questo sorriso, questo estremo sorriso? Che dolore! Cosa devo fare? Mi perdo di coraggio, amiche, quando vedo il volto sereno dei miei figli. No, non me la sento: all'inferno le decisioni di prima. Porterò via con me i bambini. Per straziare il padre con le sventure dei suoi figli, devo proprio raddoppiare la mia di sofferenza? No davvero.
All'inferno le mie decisioni. Ma cosa mi succede? Voglio diventare lo zimbello di tutti lasciando impuniti i miei nemici? Perché tanti scrupoli? Ma che vile sono a accogliere nella mia mente idee di mitezza! Bambini, entrate in casa.
E se a qualcuno non è lecito assistere ai miei sacrifici, ci pensi lui: la mia mano non tremerà. No, non farlo, cuore mio: lasciali in vita, sciagurata, risparmiali i tuoi figli; laggiù, in Atene, vivendo con te, ti daranno gioia. No, per i demoni vendicatori dell'Ade, non consegnerò mai i miei figli al ludibrio dei miei nemici. Devono assolutamente morire: e se è così, sarò io, che li h o messi al mondo, a ucciderli. È cosa fatta oramai, non c'è più scampo. La sposa si è già messa la corona sul capo, sta morendo avvolta nel peplo. Lo so, lo so. Mi incammino per una strada tristissima e avvio i miei figli verso una strada ancora più triste. Voglio congedarmi da loro. La mano, date a vostra madre la mano perché ve la baci. Dio, come amo questa mano, questa bocca, come sono belli i miei figli, che tratti nobili hanno. Siate felici laggiù, perché qui vostro padre ve lo ha impedito. Vi abbraccio con tenerezza; com'è morbida la vostra pelle, com'è dolce il vostro respiro. Andate, andate via: non sono più capace di guardarli, sono vinta dall'angoscia. E so il male che sto per fare, ma la passione in me è più forte della ragione: e la passione è la causa delle peggiori sciagure, nel mondo.
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Amiche, ho deciso: ucciderò i miei figli subito, al più presto, e poi mi allontano da questo paese. Se indugio, li consegnerò come vittime a una mano più nemica della mia. Devono assolutamente morire: e se è così, li ucciderò io, che li ho generati. Preparati, mio cuore. Ma perché esito? Quello che devo fare è orribile ma inevitabile. La mia povera mano impugni la spada, la impugni.
Avvìati, Medea, verso una vita di dolore, non essere vile, non ricordarti che li hai generati tu, questi figli, e come gli volevi bene: scordati per questo breve giorno dei tuoi figli, e poi, piangi. Anche se li ucciderai, tu li hai amati. Dio, che donna infelice sono.


Poveri figli miei, morti per la follia di vostro padre.