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La cultura delle città-Lewis Mumford




domenica 10 marzo 2013 legge Vito Colavitti
Per il ciclo
Saggio chi legge
alla libreria Coop Zanichelli
Il testo di partenza:

Lewis Mumford, La cultura delle città, a cura di Michela Rosso e Paolo Scrivano, Edizioni di Comunità, Torino 1999.
Testo dal tono volutamente polemico, assertivo, ma scritto anche con evidenti finalità didascaliche, La cultura delle città, un classico degli studi urbani, si propone ancora oggi come uno straordinario progetto di comunicazione divulgativa dedicato ai temi della città e del territorio. Esso offre una profonda riflessione sui valori della cultura usando come chiave narrativa l'evoluzione della città occidentale dal Medioevo all'epoca contemporanea, mantenendo numerosi elementi di interesse anche in relazione alle tematiche urbanistiche. La fortuna della Cultura delle città, dovuta anche al talento narrativo di Mumford, si riassume nella difficoltà di darne una precisa collocazione disciplinare. Dal 1938, anno della pubblicazione negli Stati Uniti, questo libro ha continuato ad appassionare un pubblico assai eterogeneo, trovando tra i suoi lettori sociologi come letterati, storici come architetti e urbanisti.
“La città, quale si rivela nella storia, è il punto di massima concentrazione dell’energia e della cultura di una comunità”. (Lewis Mumford)

5. Dominio della Chiesa (pagg. 18-20)
Le idee e le istituzioni della città medievale ci interessano qui solo in quanto influirono sulla struttura delle città e sullo sviluppo degli organi della vita culturale […].
Nell’Europa occidentale, dopo la caduta dell’Impero romano, l’unica istituzione potente ed universale fu la Chiesa. L’appartenenza a questa comunità rappresenta una sorgente continua di vita e di benessere; esserne esclusi rappresentò una punizione così grave che fino al Cinquecento persino i re ne tremavano […].
Forse l’effetto civico più importante di questa religione ultraterrena, con la sua confortatrice protezione, le sue astinenze, i suoi ritiri, fu quello di rendere universale il chiostro. La cultura medievale costantemente “in ritiro”, aveva il claustrum dove la vita intima poteva fiorire. Finché il complesso medievale fu intatto, una corrente ininterrotta di uomini di mondo delusi si svolgeva dalla piazza del mercato o dal campo di battaglia a cercare la quiete contemplativa nell’ambito del monastero […].
Questa concentrazione generale sulla vita intima aveva un effetto di compenso sull’immaginazione: le volgari percezioni diurne erano trasfigurate dalle appassionate allucinazioni e visioni dei sogni; le immagini dell’occhio interno erano altrettanto reali di quelle che colpivano dall’esterno la retina. E benché il protestantesimo del Cinquecento introducesse il sospetto per l’occhio lascivo, esso mantenne quali usi personali i costumi del convento: preghiera e comunione interiore.
Oggi, mentre spalanchiamo i nostri edifici alla luce del sole e alle influenze esterne, noi dimentichiamo a nostro rischio il bisogno non meno importante di quiete, oscurità, isolamento interiore, ritiro. Il chiostro, nella forma sia collettiva che personale, è un elemento costante nella vita cittadina degli uomini. Senza possibilità formali di isolamento e contemplazione, possibilità che richiedono spazio chiuso al riparo da occhi curiosi, da stimoli esterni e da interruzioni profane, anche la vita più esteriore ed estroversa non può non soffrirne […].
Nella città medievale lo spirito si era organizzato dei rifugi, e gradiva i modi di fuggire alle sollecitazioni mondane. Oggigiorno la degradazione della vita intima è simboleggiata dal fatto che il solo posto al sicuro da intromissioni è il gabinetto.

8. Igiene e sanità (pagg. 41-43)
[…] C’erano stanze fumose da tollerare; ma c’era anche il profumo del giardino retrostante alla casa borghese: i fiori odorosi e le erbe aromatiche erano largamente coltivati. C’era nella strada l’odore dei fienili, che andò scemando nel Cinquecento per quanto il numero dei cavalli fosse in aumento; ma c’era anche l’olezzo dei frutteti fioriti in primavera, o il profumo del fieno tagliato fresco che si effonde sui campi nella prima estate. Benché i londinesi possano arricciare il naso a questa combinazione di odori, nessun innamorato della campagna può essere offeso dall’odore del letame di cavalli o di buoi anche se mischiato occasionalmente con quello degli escrementi umani: forse che le esalazioni dei tubi di scarico di petrolio, l’odore rancido di una folla di metropolitani, la puzza penetrante di un deposito di spazzatura, l’odore acre del cloro di un lavatoio pubblico sono più gradevoli? Anche quanto ad olfatto non tutti i vantaggi sono dalla parte della città moderna.
Quanto alla vista e all’udito, non è dubbio da qual parte pende il piatto della bilancia: la maggior parte delle città medievali era in condizioni di gran lunga migliori di quelle costruite nel secolo scorso. Nella città medievale ci si svegliava al canto del gallo, al pigolio degli uccelli nidificanti sotto le grondaie, o al rintocco delle ore del monastero dei sobborghi, forse allo scampanio del nuovo campanile. Il canto saliva facilmente alle labbra, dal canto fermo dei monaci ai ritornelli dei cantastorie sulla piazza del mercato, o dell’apprendista e della serva al lavoro. Ancora nel Seicento la capacità di tenere una parte in un canto corale domestico era considerata una qualità indispensabile in una nuova fantesca. C’erano canti particolari ai vari mestieri, spesso composti sul ritmo dei colpi dello stesso artigiano. Fitz-Stephens riportò nel secolo XII che il rumore del mulino ad acqua era piacevole fra i verdi prati di Londra. Di notte c’era un silenzio assoluto, salvo i movimenti degli animali e i tocchi delle ore dell’orologio della città. Un sonno profondo era possibile nella città medievale, indisturbato da suoni sia umani che meccanici.
Se l’udito veniva solleticato, l’occhio godeva di ancor maggiori soddisfazioni. L’artigiano che era andato a passeggiare fra i campi e i boschi nei giorni festivi tornava alle sue sculture in pietra o ai suoi intagli in legno con una ricca messe di impressioni da trasferire nel suo lavoro. Gli edifici ben lungi dall’apparire cuoi erano chiari e puliti, come le alluminature medievali; spesso erano imbiancati a calce in modo che i colori delle immagini a fresco, o dipinte su vetro, o scolpite in legno policromo, danzavano sulle pareti, come ombre tremolanti di brocche di lillà sulle facciate degli edifici più riccamente ornati.
Gli uomini comuni pensavano e sentivano per immagini, molto più che per astrazioni verbali usate dagli studiosi: la disciplina estetica poteva mancare di un nome ma i suoi frutti erano visibili ovunque. I fabbricanti di immagini scolpivano statue, dipingevano trittici, decoravano le pareti della cattedrale, il palazzo delle corporazioni, il municipio, la casa borghese; colore e linea erano dappertutto l’accompagnamento normale del lavoro pratico di ogni giorno. Nasceva uno stimolo visivo dalle mercanzie esposte sul mercato all’aperto: velluti e broccati, rame e splendente acciaio, pelle bulinata e vetro scintillante, anche tacendo dei cibi accomodati nelle ceste, a cielo aperto […].
Questa educazione giornaliera dei sensi è la base essenziale di ogni forma più alta di educazione: quando essa esiste nella vita quotidiana una comunità può risparmiarsi il fastidio di organizzare corsi di critica d’arte. Quando un tale ambiente manca, anche i processi razionali ed espressivi sono ridotti ad uno stato di seminedia: il magistero verbale non può compensare la mancanza di alimento ai sensi.
[…] La città ha un effetto più duraturo che la scuola teorica. La vita fiorisce in questa espansione dei sensi: senza di essa il ritmo del polso è più lento, il tono muscolare è più basso, il contegno manca di sicurezza, le discriminazioni più sottili della vista e del tatto mancano, forse la stessa voglia di vivere soccombe. Far mancare nutrimento alla vista, all’udito, al tatto, è un invito alla morte non meno che negar cibo allo stomaco. Benché il regime dietetico fosse sovente scarso nel Medioevo, benché i credenti spesso si imponessero mortificazioni con digiuni e penitenze, pure nemmeno i più ascetici potevano chiudere del tutto gli occhi di fronte alla bellezza: la città stessa era una onnipresente opera d’arte; ed i vestiti dei suoi cittadini nei giorni di festa rassomigliavano ad un giardino in fiore.

11. Il palcoscenico e il dramma (pagg. 51-55)
Ogni cultura ha il suo dramma caratteristico. Essa estrae dalla somma generale delle possibilità umane certe azioni e certi sentimenti, certi sviluppi e certi valori, e li carica di uno speciale significato: prepara loro una cornice, organizza riti e cerimonie, esclude dalla successione delle battute del dramma infiniti altri dati quotidiani i quali, benché restino a far parte del mondo “reale”, non sono elementi attivi del dramma stesso. Il palcoscenico sul quale il dramma viene rappresentato con gli attori più provetti, ed un’intera compagnia che fa da coro, e con scenari creati apposta, è la città: qui il dramma raggiunge il vertice della sua intensità.
Tra i fatti sotterranei della vita e il dramma di una cultura è accennato lo stesso rapporto che corre tra i fatti quotidiani e i sogni di un dormiente, che traspone e magnifica certi elementi della realtà, in rapporto con i fini e i conflitti della sua vita interiore […].
Quale fu il dramma essenziale della cultura medievale? Esso si svolgeva all’interno della Chiesa, esso riguardava il passaggio del peccatore attraverso un mondo malvagio e doloroso dal quale egli poteva salire al cielo per mezzo del pentimento, oppure precipitare, per durezza di cuore o perseveranza nel peccato, all’inferno […]. Ma nulla di ciò che aveva a che fare col dramma era volgare; al contrario la Chiesa, fondata da un atto di Dio, introduceva nel mondo testimonianze immutabili della grazia e della bellezza a venire: benché l’arte e la musica potessero distogliere l’uomo da una vita più alta, esse ne significavano anche la possibilità e in realtà l’immanenza. La vita era una successione di episodi significativi nel pellegrinaggio dell’uomo verso il cielo: per ogni momento importante la Chiesa aveva il suo sacramento o la sua celebrazione. Subordinato al dramma attivo era l’incessante canto di preghiere: in solitudine o in compagnia, gli uomini comunicavano con Dio e ne dicevano le lodi. In tali momenti, anzi soltanto in tali momenti, l’uomo viveva la sua vera vita.
Comunque si interpreti la città medievale, nella sua vita attiva e turbolenta essa era soprattutto un palcoscenico per le cerimonie della Chiesa. […] La chiave della città visibile è riposta nella processione, soprattutto nella grande processione religiosa che si snoda attraverso le strade e le piazze prima di entrare finalmente nella chiesa o nella cattedrale per la grande cerimonia. Qui non si tratta di architettura statica. Le masse improvvisamente si espandono e svaniscono a seconda che ci si avvicini o allontani: una dozzina di passi basta ad alterare il rapporto del primo e dell’ultimo piano, oppure a spostare in alto o in basso il punto di vista. I contorni degli edifici coi loro ripidi frontoni, le acute linee dei tetti, i loro pinnacoli, le loro torri ondeggiano e fluiscono, si rompono e si cristallizzano, si alzano e si abbassano con una forza vitale non inferiore a quella delle strutture stesse. Come in un bel pezzo di scultura , i profili hanno spesso una varietà inesauribile: i contorni variano continuamente non meno dei rapporti tra i piani.
[…] Le torri delle chiese facevano alzare gli occhi al cielo: le loro masse si elevavano in rango gerarchico sopra i simboli minori della ricchezza terrena e del potere: attraverso i vetri piombati dei finestroni la luce irrompeva in splendide aureole colorate. Da ogni parte o quasi della città, i campanili, dita ammonitrici, spade di arcangeli spruzzate d’oro, erano visibili: se per un momento restavano nascosti apparivano improvvisamente negli intervalli dei tetti, con la forza di uno squillo di tromba.
Le linee degli edifici secondari non seguivano necessariamente un andamento ascensionale: file orizzontali di finestre sono comuni nelle case, e modanature orizzontali spesso separano i piani di un campanile. […] L’occhio sale e scende soltanto perché la vista bloccata è una caratteristica dei piani e progetti medievali. Quando l’occhio è bloccato sale. L’uomo bloccato nel movimento si sposta e persegue in un’altra direzione. Così si camminava per le strade: così ci si univa in un corteo delle corporazioni o in una processione religiosa, facendo giri e percorrendo curve finché non si arrivava al portico della chiesa […].
Osservate il numero di persone in gran pompa, in questa processione. Anche qui come in chiesa, gli spettatori erano insieme comunicanti e partecipanti: essi erano impegnati nello spettacolo, osservandolo dall’interno, non dall’esterno: o piuttosto sentendolo dall’interno, agendo all’unisono, non individui isolati, ridotti ad un singolo ruolo particolare. Preghiera, messa, corteo, battesimo, matrimonio o funerale, la città stessa era il palcoscenico per queste separate scene del dramma, e il cittadino stesso ne era attore. Spezzata che fu l’unità di quest’ordine sociale, ogni cosa all’intorno fu posta in confusione; perfino la grande Chiesa divenne una setta, e la città diventò un campo di battaglia per culture in conflitto, e modi di vita in contrasto.

Per ampliare: bibliografia e sitografia
- Lewis Mumford, La città nella storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963; rist. Bompiani, Milano 1981.
- Lewis Mumford, La condizione dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano 1957; rist. Bompiani, Milano 1996.

- Paolo Sica, L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Editori Laterza, Bari 1970.
- Arnold Toynbee, La città aggressiva, Editori Laterza, Bari 1972.
- James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, Bergamo 1999.
- James Hillman, L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano 2004.
- Christian Norberg-Schulz, Genius loci (Paesaggio, Ambiente, Architettura), Electa Editrice, Milano 1981.
- José Luìs Pinillos, Psicopatologia della vita urbana, Cittadella Editrice, Assisi 1980.