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La scuola della signorina Spezzindue - da R. Dahl, R. L. Stevenson, G. Biffi





lunedì 21 maggio 2012 legge Elena  Massi
Lo scrittore inglese Roald Dahl è diventato estremamente popolare tra insegnanti e bibliotecari per i particolari macabri, ironici e grotteschi delle sue storie. Dopo anni di letterale caccia alle streghe per espurgare i romanzi per bambini di brutture e paure, pochi adulti si sono schierati contro l'autore inglese, nonostante i suoi romanzi brulichino di schifosi sporcelli che si maltrattano a vicenda o diano allure a figure ambigue come quella Willy Wonka nella misteriosa fabbrica di cioccolato o rappresentino attività illegali per evocare momenti memorabili del rapporto padre-figlio, come quello di Danny che, grazie a suo padre, diventa campione del mondo di caccia da frodo. È la fine di un'epoca? Che ruolo hanno oggi i casi esemplari: le storie di formazione alla Pinocchio, che dopo innumerevoli avventure smette di essere un monello 'cattivo' per diventare un bambino buono? Che tipo di esperienza pedagogica porta al lettore chi propone di divertirsi con la cattiveria, di godere della bruttezza o di condividere malinconia? Insomma come spiegare il fascino della scuola della signorina Spezzindue, la terribile direttrice scolastica, della piccola Matilde?


R. Dahl, R.L. Stevenson, G. Biffi:
"La scuola della signorina Spezzindue"

Roald Dahl, Matilde, Milano, Salani, 1995.
Durante l’intervallo, la signorina Dolcemiele uscì dall’aula e andò dritta nell’ufficio della direttrice. Era eccitatissima: aveva appena scoperto una bambina dall’intelligenza fuori dal comune (o almeno, così le pareva). Non c’era stato il tempo di scoprire fino a che punto Matilde fosse dotata, ma la maestra aveva avuto sufficienti prove per rendersi conto che bisognava intervenire: era assurdo lasciare una bambina del genere in prima elementare.
In genere la signorina Dolcemiele aveva un sacro terrore della direttrice, e se ne teneva alla larga il più possibile. In quel momento però, si sentiva pronta ad affrontare chiunque. Bussò alla porta del temutissimo ufficio e la voce cupa e minacciosa della signorina Spezzindue tuonò: «Avanti!». La signorina Dolcemiele entrò.
Di solito, per dirigere una scuola si scelgono persone che possiedono particolari qualità: devono capire i bambini e i loro bisogni, essere comprensive, giuste e colte. La signorina Spezzindue non possedeva nessuna di queste qualità, ed era un mistero per tutti come fosse riuscita a farsi nominare direttrice di quella scuola.
Si trattava di un donnone davvero colossale. In passato era stata un’atleta famosa, e anche adesso i suoi muscoli apparivano poderosi. Aveva il collo taurino, spalle enormi, braccia grosse, polsi fortissimi e gambe più che robuste. Bastava guardarla per capire che avrebbe potuto piegare una sbarra di ferro, o strappare in due un elenco telefonico. Il viso, purtroppo, era tutt’altro che bello: mento ostinato, bocca crudele e piccoli occhi arroganti. E quanto ai suoi vestiti…non si può fare a meno di definirli stravaganti.
Indossava, in genere, un camiciotto marrone stretto in vita da una larga cintura di cuoio chiusa da una massiccia fibbia d’argento. Le cosce possenti che emergevano dal camiciotto erano inguainate in un paio di calzoni alla zuava, di una ruvida stoffa color verde bottiglia. Dal ginocchio in giù, portava calzettoni verdi con risvolto, che sottolineavano i polpacci muscolosi. Le scarpe erano da uomo, a tacco basso. Insomma, assomigliava a un eccentrico cacciatore, assetato di sangue e scatenato dietro a una muta di segugi, piuttosto che alla direttrice di una gradevole scuola per bambini.
Quando la signorina Dolcemiele entrò, la direttrice era in piedi accanto all’enorme scrivania, con espressione minacciosa e impaziente. «Allora, Dolcemiele, cosa vuole? È tutta rossa e agitata, stamattina. Che le succede? Quelle piccole canaglie l’hanno bombardata di palline di carta?»
«No, direttrice. Niente del genere».
«Allora di che si tratta? Su, avanti. Non ho tempo da perdere».
Mentre parlava, si versò un bicchiere d’acqua da una caraffa che si trovava in permanenza sulla sua scrivania.
«Nella mia classe c’è una bambina che si chiama Matilde Dalverme…» cominciò la signorina Dolcemiele.
«È la figlia di quel tizio che vende macchine usate, giù in paese» abbaiò la signorina Spezzindue. Non parlava mai con un tono di voce normale: abbaiava o ruggiva. «Un’ottima persona, quel Dalverme» continuò. «Sono andata da lui proprio ieri. Mi ha venduto una macchina quasi nuova, che ha fatto solo diecimila chilometri. L’ex proprietaria era una vecchietta che la usava sì e no una volta all’anno. Un vero affare. Mi è davvero piaciuto, il signor Dalverme. Una colonna della società. Però mi ha detto che sua figlia è una teppistella e che è meglio tenerla d’occhio. Anzi, ha aggiunto che se a scuola succedesse qualcosa di strano probabilmente la responsabile sarebbe lei. Non ho ancora fatto conoscenza con quella monellaccia, ma, quando accadrà, si ricorderà di me. Suo padre dice che è una vera peste».
«Oh, direttrice, non può essere!» esclamò la signorina Dolcemiele.
«E invece è così! Anzi, scommetto che è stata lei a mettere quella bombetta puzzolente sotto la mia scrivania, stamattina. La stanza puzzava da svenire! Sì, dev’essere stata lei. Gliela farò pagare cara! Che faccia ha, quel vermiciattolo odioso? Nel corso della mia lunga carriera di insegnante ho imparato, signorina Dolcemiele, che le bambine sono molto più pericolose dei maschietti. Ed è difficile domarle. Domare una mocciosa perversa è come cercare di schiacciare un moscone su una cacca. Cerchi di colpirlo e quello è già è volato via. Che cosa disgustosa, le bambine. Per fortuna io non sono mai stata bambina».
«Ma, direttrice, dev’esserlo stata per forza!»
«Non per molto tempo, comunque» abbaiò la signorina Spezzindue, sghignazzando. «Sono diventata donna molto in fretta».
È proprio matta, pensò la signorina Dolcemiele. Matta come un cavallo. Ma rimase dritta in piedi davanti alla direttrice: stavolta era decisa a non lasciarsi tiranneggiare.
«Le assicuro, direttrice, che si sbaglia: non è stata Matilde a mettere una bombetta puzzolente sotto la sua scrivania».
«Io non sbaglio mai, signorina Dolcemiele».
«Ma la bambina è venuta a scuola stamattina per la prima vota, entrando direttamente in classe…».
«Non discuta, ragazza, per l’amor del cielo! Quel mostriciattolo ha messo una bombetta puzzolente nel mio ufficio, non ci sono dubbi! Grazie per avermelo suggerito».
«Ma io non gliel’ho suggerito!»
«Certo che lo ha fatto! Insomma, signorina, che cosa vuole? Ha deciso di farmi perdere tempo?»
«Sono venuta a parlare di Matilde. Ho da raccontarle cose straordinarie, su di lei. Mi consente di spiegare quel che è successo nella mia classe poco fa?»
«Le avrò appiccato fuoco alla gonna bruciandole le mutandine, suppongo» grugnì la signorina Spezzindue.
«No, no!» esclamò la signorina Dolcemiele. «Matilde è un genio».
La faccia della signorina Spezzindue diventò paonazza e tutto il corpo sembrò gonfiarsi, proprio come quello di una rana gigante. «Un genio!» strillò. «Che stupidaggine! Lei è matta! Suo padre mi ha giurato che la figlia è una vera delinquente!»
«Il padre si sbaglia, direttrice.»
«Lei è proprio una stupida, signorina Dolcemiele! Conosce quel piccolo mostro sì e no da mezzora, mentre il padre la conosce da quando è nata».
La signorina Dolcemiele, però, era ben decisa a dire la sua, e cominciò a riferire alcune delle prodezze di Matilde.
«Sa semplicemente a memoria qualche tabellina!» sbraitò la Signorina Spezzindue. «Ragazza mia, questo non basta per definirla un genio! È soltanto un pappagallo!»
«Ma sa leggere».
«Anch’io» rispose aspra la signorina Spezzindue. «Secondo me, Matilde dovrebbe passare dalla mia classe alla quinta, con i bambini di dieci anni».
«Ah!» sbuffò la signorina Spezzindue. «Non si riesce a tenerla a freno e vuole sbarazzarsene, scaricandola sulla povera signorina Pilli, alla quale farà vedere i sorci verdi!»
«No, no!» gridò la signorina Spezzindue. «Ho capito perfettamente il suo piano, e la mia risposta è no! Matilde rimane dov’è, e tocca a lei fare in modo che si comporti a dovere».
«Ma signora direttrice, la prego…».
«Basta! Non una parola di più! In questa scuola una regola ben precisa prescrive che i bambini della stessa età debbano stare insieme, indipendentemente dalle loro capacità. Non accetterò mai di far sedere una bambina di cinque anni nello stesso banco di un bambino di dieci. Chi ha mai sentito una cosa del genere!»
La signorina Dolcemiele rimase imbambolata, del tutto impotente di fronte a quella gigantessa dal collo taurino. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma sapeva che era inutile e mormorò: «Va bene, come vuole lei».
«Naturale, che è come voglio io!» tuonò la signorina Spezzindue. «E non dimentichi, ragazza, che abbiamo a che fare con una piccola vipera che ha piazzato una bombetta puzzolente sotto la mia scrivania…».
«Ma non è stata lei!»
«Invece è stata proprio lei!» latrò la direttrice. «E le dirò una cosa: mi dispiace che non sia più permesso usare la bacchetta, come ai bei tempi! Quella mocciosa non avrebbe potuto sedersi per un mese buono!»
La signorina Dolcemiele uscì dall’ufficio sentendosi depressa, ma non sconfitta. Farò qualcosa per quella bambina, si disse. Non so ancora che cosa, ma troverò pure il modo di aiutarla.

Robert Luis Stevenson, I personaggi del racconto in Romanzi, racconti, saggi, Milano, Mondadori, 1982.
Dopo il 32° capitolo dell'Isola del tesoro, due dei fantocci andarono a fare un fioretto, prima che la storia ricominciasse, per fumare una pipatina, e si incontrarono in un luogo aperto, non lontano dalla storia.
«Buon giorno Capitano» disse il primo, con un saluto da marinaio della marina da guerra, e con il volto raggiante.
«Ah Silver!» borbottò l'altro. «Siete su di una cattiva strada, Silver»
«Capitano Smollett» protestò Silver «il dovere è il dovere, come so bene, e nessuno lo sa meglio di me; ma, adesso, siamo a riposto; e non so vedere perchè dobbiate ancora occuparvi di morale.»
«Siete un dannato gaglioffo, mio caro» disse il Capitano.
«Su, su, Capitano, siate giusto» rispose l'altro. «Non c'è ragione di arrabbiarsi davvero con me. Non sono che un personaggio in una storia di mare. In realtà, non esisto.»
«Ebbene, ma neanch'io esisto» disse il Capitano «e mi pare che questa sia una risposta alle vostre obiezioni.»
«Non vorrei mettere limiti a quello che un personaggio virtuoso potrebbe considerare discutibile» rispose Silver. «Ma io sono il cattivo di questo libro, io; e, parlandoci da marinai, vorrei sapere: qual è la differenza?»
«Il catechismo non ve l'hanno insegnato?» disse il Capitano. «Non sapete che esiste una persona che si chiama Autore?»
«Una persona che si chiama Autore?» rispose John con aria di scherno. «E chi lo sa meglio di me? E il fatto sta che se l'Autore ha fatto voi, ha fatto Long John, e ha fatto Hands, e Pew, e George Merry – non che George valga molto, perchè è poco più di un nome; e ha fatto Flint, per quello che è; e ha fatto colpire Tom Redruth con una fucilata; e...ebbene, se questo è un Autore, preferisco Pew!»
«Non crederete in una vita futura?» disse Smollett. «Credete che soltanto il giornale di oggi contenga la storia?»
«Questo non lo so con precisione» disse Silver «e, in ogni modo, non so vedere che cosa c'entri. Io so questo: se esiste una persona che è l'Autore, io sono il suo personaggio favorito. Riesce a far me mille volte meglio che non voi; mille volte, questa è la verità. E gli piace far me. Mi fa stare sulla tolda la maggior parte del tempo, con la mia gruccia; lascia voi a oziare nella stiva, dove nessuno vi può vedere, e non vuole che vi vedano, ci potete scommettere! Se c'è un Autore, tuoni e fulmini, prende le mie parti, e ci potete scommettere!»
«Vedo che vi dà corda» disse il Capitano. «Ma questo non può mutare le convinzioni di nessuno. So che l'Autore mi rispetta; lo sento in fondo alle ossa; quando voi e io avemmo quella discussione sulla porta del fortino, di chi credete prendesse le parti, eh?»
«E me non mi rispetta?» esclamò Silver. «Ah, dovreste avermi sentito domare la mia rivolta, George Merry e Morgan e quei tipi là, non prima che quell'ultimo capitolo; allora avreste sentito qualche cosa che valeva la pena d'ascoltare! Avreste veduto quello che l'Autore pensa di me! Ma ditemi, vi par d'essere un personaggio virtuoso, in tutto e per tutto?»
«Dio non voglia!» disse solennemente il Capitano Smollett. «Sono un uomo che cerca di fare il suo dovere, e il più delle volte fa una gran confusione. Al nostro paese, non sono gran che popolare, Silver; ne ho proprio paura» e il Capitano sospirò.
«Ah» disse Silver. «E allora, come andrà per voi in seguito? Sarete il Capitano Smollett come prima, e non molto popolare in patria, direte voi! E se è così, sarà l'Isola del tesoro un'altra volta, tuoni e fulmini; e io sarò Long John, e Pew sarà Pew; e avremo un'altra rivolta, assai probabilmente. O sarete qualcun altro? E se sarà così, insomma, sarete migliore di prima? E perchè io dovrò essere peggiore?»
«Sentite, mio caro» rispose il Capitano «non riesco a capire come questa storia succeda, vi dico. Non riesco a capire come voi e io, che non esistiamo, ci possiamo mettere qui a parlare, e fumiamo la pipa, assolutamente come persone vere. Ebbene, allora, chi sono io, che debba mettere fuori le mie opinioni? So che l'Autore sta dalla parte giusta; me lo dice, viene fuori dalla sua penna quando scrive. E non voglio sapere altro; per il resto, m'affido alla sorte.»
«È un fatto che pareva contro George Merry» ammise Silver pensoso. «Ma George, nel migliore dei casi, è poco più di un nome» aggiunse rallegrandosi. «E per approfondire, una volta tanto. Che cos'è questo giusto? Ho fatto una rivolta, e sono stato un gentiluomo di ventura; sì, ma, per tutte le storie, neppure voi siete un santo. Sono un uomo col quale è molto facile andare d'accordo; e voi, anche a stare a quello che dite voi stesso, non lo siete; e, ne ho le prove sicure, siete un bel pignolo. E allora? Qual è il giusto e qual è l'ingiusto?» Ah rispondetemi! Qui ci dobbiamo fermare, e ci potete scommettere!»
«Nessuno di noi è perfetto» rispose il Capitano «Questo è un fatto della religione, caro mio. Tutto quel che posso dire, è che cerco di fare il mio dovere e se cercherete di fare il vostro, son pronto a farvi i complimenti per il vostro successo.»
«E così, voi eravate il giudice, nevvero?» disse Silver con aria di scherno.
«Farei da giudice e da boia per voi, mio caro, senza batter ciglio» rispose il Capitano. «Ma vado più in là; può essere non sia teologia sopraffina, ma è senso comune; quello che è giusto è anche utile, o pressappoco, perchè non m'atteggio a pensatore. Insomma, dove andrebbe a finire una storia, se non ci fossero dei personaggi virtuosi?»
«Se la prendete così» rispose Silver «dove comincerebbe una storia se non ci fossero i gaglioffi?»
«Sì, è proprio quello che penso anch'io» disse il Capitano Smollett. «L'Autore deve mettere insieme una storia; questo è quel che gli occorre; e per mettere insieme una storia, e perchè un uomo come il dottore (per esempio) possa fare qualche cosa, ci deve mettere degli uomini come voi e Hands. Ma è dalla parte del giusto; e voi, state in guardia! Non è ancora finita, per voi, questa storia; vedrete che vi troverete nei guai.»
«Che cosa volete scommettere?» domandò John.
«Me ne importa molto, se non vi ci troverete!» rispose il Capitano. «Io mi contento di essere Alexander Smollett, per cattivo che sia; e ringrazio in ginocchio la mia stella di non esser Silver. Ma adesso s'apre la bottiglia dell'inchiostro. A posto!»
E, in verità, l'Autore cominciava allora a scrivere le parole:

Giacomo Biffi, Gli Attori della Commedia: L'omino mellifluo in Il “mistero” di Pinocchio, Torino, Editrice Elledici, 2003.
Il mondo dello spettacolo è stato uno dei più vivi interessi di Carlo Lorenzini, critico teatrale, osservatore attento delle novità in questo campo, autore in proprio di alcune commedie che non sono passate inosservate.
Questa appassionata frequentazione ha lasciato tracce evidenti nel suo capolavoro, dove abbondano i dialoghi e dove non mancano i colpi di scena. Sicchè non ci sembra fuori luogo concludere la nostra piccola indagine su Pinocchio indugiando brevemente sui principali personaggi di questa specie di dramma apparentemente giocoso e sul loro significato alla luce di quanto nella nostra ricerca siamo venuti scoprendo.

[…]
L'Omino mellifluo«Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole».
C'è un posto in questa storia anche per il titolare di ogni influsso malefico, per il genio della perversione, per il nemico che instancabilmente lavora a rovinarci. E assume una divisa un po' insolita: non ostenta niente di repellente e di spaventoso; al contrario è tutto rivestito di bontà e di dolcezza. Egli non si propone di incutere terrore: si propone di lusingare e sedurre.
È pieno di complimenti. «Mio bel ragazzo», «amor mio»: sono gli affettuosi appellativi con cui si rivolge alle sue possibili vittime. È perfino generoso e disposto, per altruismo, a rassegnarsi a qualunque scomodità: «I posti sono tutti pieni, ma per mostrarti quanto sei gradito, voglio cederti il mio posto a cassetta....E io farò la strada a piedi».
Ma tanta soavità, evidentemente finalizzata a un disarmante adescamento, copre e al momento cela una risoluta e crudele volontà di male, che all'occorrenza sa spegnere di colpo il sempiterno sorriso delle sue labbra e diventa spietata: «L'Omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell'orecchio destro».
Egli è il solo a vigilare nella placidità di un viaggio senza scosse verso la perdizione: «L'omino, seduto a cassetta, canterellava tra i denti:
Tutti la notte dormono
e io non dormo mai»
Porre su quella bocca infida la semplice e dolce melodia di una notissima serenata popolare è un'invenzione paradossale e felice della grande arte del narratore. Ed è insieme un'ammirevole finezza teologica. Il demonio, si sa, è una creatura attivissima e insonne: se potesse placarsi un po' e assopirsi, riuscirebbe a redimersi forse anche lui.
Con pazienza e lungimiranza egli prepara le sue vittorie sciagurate e pone le premesse dei suoi tristi guadagni. Ma quando si decide a riscuotere non perde tempo in convenevoli e non tollera indugi: «Aprite sùbito, o guai a voi!».
Oseremmo pensare che in tutta la cristianità, tra le raffigurazioni immaginate del nemico dell'uomo, non ce n'è una più originale, più alta e più vera di questa.