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Ricerca, potere, impegno civile. La memoria multiforme della strage di Ustica





lunedì 27 febbraio 2012 leggono Lorenza Iannacci, Salvatore Alongi, Maria Visconti, Jessy Simonini   
Il tema della memoria di un evento tragico e ancora profondamente dibattuto come la strage di Ustica si presta a diverse interpretazioni e approcci differenti. la memoria come mezzo per la ricerca della verità; la manipolazione della memoria come strumento del potere; o ancora la memoria come impegno civile, volto alla sopravvivenza e alla storicizzazione dell’evento. Questo il fil rouge che lega i diversi testi presentati, che tentato di rendere in maniera esplicita le diverse modalità di trattazione della memoria della strage.
In particolare ne La repubblica del dolore, lo storico Giovanni De Luna affronta il complesso problema della formazione di una “memoria ufficiale” in un momento storico di forte disgregazione sociale e di progressiva perdita di potere da parte delle istituzioni. Nell’intervista condotta dal giornalista Giovanni Fasanella al giudice Rosario Priore in Intrigo internazionale, i tanti depistaggi che hanno compromesso l’inchiesta giudiziaria vengono letti attraverso la lente della “ragione di stato” e della realpolitik. Infine Daniele Del Giudice racconta nel suo Unreported inbound Palermo la ricostruzione del volo dell’I-Tigi la notte del 27 giugno 1980 e la storia del ritrovamento e della riaggregazione dei frammenti scomposti dell’aereo, in una sorta di viaggio circolare che idealmente si chiude attorno alla sagoma del relitto ricostruito, unico vero “testimone muto” di quell’evento.

Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore, Feltrinelli
(…) Nel suo strettissimo rapporto con la sovranità dello Stato nazionale e nel modo in cui interagisce con altre forme di memoria presenti nella società, la memoria ufficiale è essenzialmente una memoria “culturale”. Priva di qualsiasi riferimento “biologico”, può quindi essere realizzata solo ufficialmente, secondo il principio che “il passato non si fissa naturalmente ma è una creazione culturale”, per cui chi costruisce memoria sceglie di volta in volta, intenzionalmente quali aspetti del passato sia necessario far vivere nel presente. Lo Stato, in particolare, lo fa avvalendosi di molteplici strumenti: libri di storia, manuali scolastici, monumenti, toponomastica, festività pubbliche, rituali politici.
In quanto memoria culturale, la memoria ufficiale è dunque un progetto, una “costruzione”; è pubblica e non privata, normativa e non spontanea, collettiva e non individuale, e si presenta come la risultante di un”patto” in cui è lo Stato a fissare i termini per cui ci si accorda su ciò che è importante trasmettere alle generazioni future. La sua costruzione consiste appunto in un incessante lavorio attraverso il quale lo Stato e le sue istituzioni includono (o escludono) sempre nuovi elementi dai confini di quel “patto”, ne rinnovano i contraenti e i contenuti, a seconda delle fasi politiche che si rincorrono nella storia di un paese. Lo scopo ultimo di un simile “patto” è alla fine quello di alimentare i valori, le credenze, i simboli, le liturgie che legittimano un sistema politico, ancorandoli a un passato che viene proposto come comune e condiviso. Di qui l’importanza strategica che una memoria ufficiale così concepita assume nella costruzione di una “religione civile”, di uno spazio pubblico di reciproca accettazione tra ideologie ed appartenenze contrastanti, di rispetto per le libertà individuali nel nome dei valori consapevolmente accettati.
Una religione civile che si proponga non nella sua versione sacralizzata, nei suoi riferimenti al trascendente, ma nella concretezza dei legami sociali che tengono avvinta una comunità, nell’insieme delle dottrine politiche, delle narrazioni storiche, delle figure esemplari, delle occasioni celebrative e dei riti di memoria mediante i quali lo Stato si imprime nelle menti dei suoi membri, specialmente dei più giovani e di quelli di più recente acquisizione. Senza una “memoria ufficiale” che ne ispira i contenuti, che si proponga come un riferimento culturale che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti come “membri della nazione”, ci sarà sempre una religione civile monca, zoppicante, inadeguata; e, d’altra parte, una “memoria ufficiale”, amputata dei riti, delle cerimonie ma anche delle pratiche politiche che confluiscono nella “religione civile” di un paese, si proporrà sempre come un qualcosa di arido, sterile, mummificato, favorendo più l’oblio che il ricordo.
Gli archivi nazionali
Per lunghi tratti dell’Ottocento e del Novecento, il potere di delimitare confini e contenuti del patto su cui si fonda la “memoria ufficiale” è stato uno degli attributi più significativi della sovranità politica dello Stato nazionale, che interveniva direttamente nella funzione strategica attribuita alla scuola nell’elaborazione del passato, nell’indicazione tassativa dei luoghi di memoria, nelle tradizioni da “inventare” e celebrare, oltre che nell’organizzazione delle fonti e degli archivi per alimentare il sapere storico. Restando in questo ambito subito dopo la Rivoluzione francese, ad esempio, gli archivi nazionali furono istituiti sia per tutelare i diritti del cittadino contro la sacralità misteriosa e minacciosa degli apparati statali, sia per la necessità di documentare le malefatte dell’Ancien Régime; poi, nell’Ottocento, fu proprio il nesso con la sovranità a rendere gli Stati nazionali gli unici soggetti di storia capaci di attingere al proprio potere per sedimentare documenti pesanti. Tali cioè da perimetrale i rispettivi territori consolidando confini, appartenenze, identità. Una precisa gerarchia delle fonti rifletteva l’immagine di questo Stato “potente”: “in testa il corteo, prestigiosi, ecco gli Archivi di Stato, manoscritti o stampati, documenti unici, espressione del potere dello Stato, di quello delle Case reali, dei Parlamenti, delle Corti dei Conti, segue il drappello dei testi a stampa non più segreti, in primo luogo testi giuridici e legislativi, poi giornali e pubblicazioni che non emanano soltanto dal potere statuale ma dall’intera società colta. Le biografie, le fonti di storia locale, i racconti dei viaggiatori formano la coda del corteo (…) La storia è compresa dal punto di vista di coloro che hanno assunto la direzione della società, uomini di Stato, diplomatici, magistrati, imprenditori e amministratori”.
Oggi questo tipo di gerarchia delle fonti è stato decapitato, restando acefalo: nel mondo unificato dagli spazi e dai tempi della globalizzazione, non c’è nessun soggetto politico in grado di esercitare su scala terrestre l’autorità necessaria per recintare gli spazi e perimetrare le città e gli Stati, così da metterci di fronte all’impossibilità dell’esistenza di un archivio mondiale; i documenti conservati al National Archives di Washington, ad esempio, custodiscono pezzi importanti anche della storia italiana, ma non bastano da soli ad alimentare il racconto di “una storia di tutti”. La crescente interdipendenza di un pianeta sempre più unificato dalla forza pervasiva dei mercati, dall’universalizzazione delle tecniche informatiche, da uno spazio della comunicazione tendenzialmente omogeneo, da una marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita ha drasticamente ridimensionato la sovranità dello Stato-nazione, travalicandone i confini e condizionandone le economie, appannandone il ruolo e in qualche misura trasferendone l’autorità a protagonisti transnazionali o a organismi internazionali, il cui peso accresciuto condiziona in modo pressante l’azione dei singoli governi. Contemporaneamente, come reazione ai venti della globalizzazione, si è assistito ad una moltiplicazione dei mondi locali attraverso la rinascita o l’invenzione di appartenenze esclusive fondate sulla razza, sull’etnia o sulla fede religiosa, la ricerca affannosa di “piccole patrie”, che ambiscono prima o poi a cristallizzarsi in Stati.
Attaccato dall’alto da una dimensione planetaria che svuota dall’interno il principio territoriale della sua sovranità, dal basso dalle insorgenze di questi svariati localismi e particolarismi, lo Stato nazionale si è affacciato sulla scena del post-Novecento avviluppato in una complessiva crisi di legittimità, che ha determinato, tra l’altro, una sorta di implosione della “memoria ufficiale”, così come si era strutturata nella storia dello Stato “potente”. È qui che si scioglie il paradosso apparente prima richiamato; a mano a mano che lo Stato è diventato “meno potente”, si è accentuata la politicizzazione del ricordo, alla ricerca di una nuova legittimazione in grado di risarcire lo Stato delle amputazioni subite sul piano del potere reale, almeno nella sfera del simbolico e del rituale (…)

Giovanni Fasanella, Rosario Priore, Intrigo internazionale, Chiare Lettere

(…) Tornando ai depistaggi, lei dunque distingue tra la responsabilità di chi commise reati e quella di chi fece in modo che non se ne comprendesse il senso, il “messaggio”?
È ovvio. Una cosa è la finalità della strage o di un grande attentato terroristico come, per esempio, l’assassinio di Moro, su cui si sono concentrati gli interessi di tanti stati e di tanti servizi. Altra cosa è la finalità del depistaggio che mira a impedire che la verità emerga. Che si scopra, cioè, l’insieme delle complicità. Per paura delle complicazioni internazionali che ne deriverebbero, a cominciare dalla rappresaglie nei nostri confronti da parte di coloro eventualmente indicati come gli autori o i mandanti. Insomma, i servizi tendono a nascondere quasi per dovere istituzionale, con metodologie raffinare, spesso da guerra psicologica. Nebbia, nebbia. Ma non tanto fitta da rendere del tutto imperscrutabile la realtà.
Le colpe degli autori degli attentati e quelle dei depistatori spesso si sono confuse e sovrapposte in modo sommario?
È vero. E, aggiungerei, anche con certi automatismi che spesso si sono determinati all’interno delle nostre inchieste quasi come dei riflessi condizionati. Condizionati sia da “suggestioni” di ambienti interessati a determinate soluzioni preconfezionate, sia da schemi mentali radicati in modo profondo nella cultura politica del nostro paese e dei mezzi di informazione. Abbiamo visto – e cito ancora l’esempio di Ustica – che la strage non fu certo opera di qualche terrorista “imbeccato e protetto dalla P2 e dai servizi deviati italiani”, ma di potenze straniere nostre amiche e alleate. Se però fossimo riusciti a dimostrare sul piano giudiziario la colpa di quegli stati, il governo italiano non avrebbe certo potuto chiudere gli occhi: si sarebbe trovato nella non facile condizione di contestare, quantomeno sul piano politico, le responsabilità di quei paesi amici. In qualche caso anche di reagire concretamente, dando una risposta adeguata sul piano del diritto internazionale. Ma il nostro governo non ne avrebbe avuto la forza. Né la volontà. Anche perché avevamo la coda di paglia, visto che pure noi ci eravamo mossi con una certa “disinvoltura”, oltre i nostri limiti e al di fuori dei nostri confini, urtando le “suscettibilità” altrui. Per questo la nostra inchiesta fu ostacolata, per impedire che si delineasse l’intero quadro della strage. E tentarono di circoscrivere l’area delle indagini alle piccole formazioni di “bombaroli d’accatto”. Insomma, puntavano a una soluzione “minima” che consentisse un’uscita “onorevole” a magistrati e governanti.
In tutte le vicende di grande terrorismo, quindi, i depistatori si sarebbero mossi nel nome di una pretesa “ragion di stato”?
Sì, in nome di quella che ritenevano fosse “la ragion di stato”. Come ho appena detto, si trattava di evitare lo scontro con stati (o spesso anche organizzazioni) di peso superiore o comunque non sostenibile. Potrebbe sembrare un motivo da poco, quasi un segno di avidità, il timore di affrontare un confronto con altri paesi più forti di noi. Ma questa era la realtà. Non vogliamo usare l’espressione “ragion di stato”, con tutta la sua magniloquenza? Va bene, la “ragion di stato” è qualcosa di superiore. Diciamo allora che era crudo realismo: al di sotto della “ragion di stato” non può esserci che un’ovvia Realpolitik. Tutta la mitologia del complotto e le relative vulgate sui misteri d’Italia sono quindi una delle conseguenze della necessità di coprire, agli occhi dell’opinione pubblica straniera ed interna, una realtà imbarazzane o “indicibile”. Non tutto si può rivelare, e questo per ragioni di interesse e di sicurezza nazionali. Per motivi d’ufficio, in particolare, durante l’inchiesta su Ustica, sono venuto a contatto con informazioni di carattere militare coperte da segreto nazionale e di pertinenza della Nato. Per esempio con le regole relative al funzionamento del sistema radar dell’Alleanza atlantica, posto a protezione dei paesi dell’Occidente da possibili invasioni aeree da parte del Patto di Varsavia: se tutto questo fosse stato svelato, avrebbe provocato un danno enorme e irrimediabile alle nostre difese. In questo caso, si trovò un accordo con la segreteria generale della Nato affinché consentisse a noi di capire il funzionamento del sistema e all’Alleanza atlantica di proteggere il segreto.
D’accordo. Resta comunque il fatto che informazioni decisive per l’esito delle inchieste vennero molto spesso negate a magistrati nell’esercizio delle proprie funzioni.
È vero. Ma qui il discorso è estremamente delicato. Premetto che le funzioni del magistrato, come tutte quelle istituzioni di una democrazia evoluta, hanno ambiti e limiti ben precisi, a dispetto di certe scuole di pensiero secondo cui tutto è giurisdizione. Il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni non può accedere sic et simpliciter a notizie ed informazioni classificate. Per molte ragioni. Non ultima il fatto che quelle informazioni finiscono tra le carte delle inchieste. E gli atti processuali, una volta cessate le esigenze istruttorie, non scompaiono in archivi inaccessibili, ma vengono depositati nelle cancellerie dei tribunali. A disposizione prima delle parti in causa poi di chiunque abbia un motivato interesse a consultarle. Insomma, una volta giunte sulla scrivania del magistrato, sono naturalmente destinate alla pubblicità nel giro di brevissimo tempo. Pensi che, dopo la caduta del Muro, mi è capitato di trovare in archivi dei servizi dell’Est europeo le copie di alcuni interrogatori effettuati durante l’inchiesta per l’attentato al Papa. Erano carte che gli avvocati avevano ricevuto in modo lecito, ma giunte chissà per quali vie nelle mani dello spionaggio orientale. E si trattava solo di interrogatori. Si figuri se fossero stati segreti militari o industriali.
Se ne deve trarre la conclusione che giustizia e “ragion di stato” sono totalmente inconciliabili?
No, non dovrebbero essere inconciliabili. Almeno così è in tutte le grandi democrazie dell’Occidente. Ma a volte possono entrare in rotta di collisione, come è accaduto quasi sempre nel corso della nostra storia recente (…)

Daniele Del Giudice, Marco Paolini, Quaderno dei Tigi, Einaudi

(…) Avevo pochi materiali allora, meglio così per narrare. La mappa della posizione dei relitti sul fondale, una scia, un corridoio di rottami lungo circa dieci chilometri. Quando li tiravano su gocciolanti dal mare nella nave appoggio, c’erano dei tecnici che inventariavano a mano su fogli a caselle, identificando lì per lì ogni frammento dell’aereo. Avevo una copia anche di quei fogli interminabili. Oggetti, pezzi di metallo e plastica, effetti personali, ecco quello che avevo, come frammenti di un antico manoscritto che nessun collegio peritale aveva saputo o voluto decifrare in modo univoco e definitivo. Tutto il resto lo portò la storia stessa, lo portarono i fatti, perfino quelli marginali all’apparenza, le marche dell’aereo, I-TIGI. Bastava davvero poco per pensarlo come i Tigi, «come un popolo sommerso in fondo al mare, o alberi secolari». Bastava poco per narrare.
Non ricordo di aver inviato il libro a Daria Bonfietti, forse me ne dimenticai o non mi venne in mente. La invitai, invece, quando da quel capitolo fu tratta un’opera musicale per la Biennale di Venezia. Vennero Daria e Andrea, il suo compagno, parlammo a lungo, capii che quella storia apparteneva a loro. Lo capii meglio ancora conoscendo, in occasione di più ampi allestimenti dell’opera musicale, i parenti dei morti nella strage di Ustica. Uno di loro, un ragazzo, mi disse che aveva deciso di studiare Giurisprudenza per contribuire un giorno «professionalmente» all’accertamento della verità. Il che voleva dire verità lontana, e compito di una vita. Non c’è dubbio, quella storia era loro prima di chiunque altro. Eppure Ustica riguardava tutti noi, e solo diventando di tutti sarebbe stata la loro storia a maggior ragione.
Poteva raccontarla anche una voce esterna come la mia, con poche carte in mano. Per narrare è sempre meglio essere un po’ estranei all’argomento, entrare dalle porte secondarie, dai sottoscala, dai magazzini, dagli angoli bui, tralasciando gli ingressi principali.
Che tipo di storia è?
Una storia fuori dal comune, perfino nel terribile ambito delle stragi italiane. Una storia non di senso comune. Comuni non sono le sue parole, un linguaggio tecnico e separato, simbolo di competenza ma anche di proprietà, di un’appartenenza difesa a oltranza, un linguaggio usato facilmente per nascondere. (…)
Ustica è anche una storia tecnologica, ad alta tecnologia. E’ una storia globale, per usare un termine oggi condiviso, coinvolge paesi e nazioni, sistemi di alleanze militari internazionali. (…)
Ustica, nonostante questo, ha la potenza di un’antica tragedia: tema dell’insepolto, nel senso stretto di coloro che non furono mai ritrovati, ma sepoltura anche come atto del fare Storia e memoria di quel che è accaduto; tema del dovere dei familiari alla verità, e impossibilità per i familiari di uscire da Ustica finché la Storia non sarà definitivamente chiarita e scritta (…)

Daniele Del Giudice, Unreported inbound Palermo, Einaudi

(…) (Se qui ci fosse un capitolo su Ustica, dovrebbe essere la storia dell'aereo. Sarebbe la storia di un aeroplano finito in fondo al mare e riemerso dalle acque, una creatura di metallo inabissata e risorta, come in un racconto mitico, qualcosa fatto per l'aria e che finisce in acqua, l'acqua sarebbe peggio di ogni altra cosa, peggio che la terra o una montagna, stridente per contrasto, l'acqua fa più paura, tremila metri sotto il mare, tremilasettecento, e poi dal mare risalito pezzo a pezzo, e ogni pezzo rimontato con cura attorno al simulacro, com'è chiamato il finto scheletro nell'hangar, l'ossatura di servizio cui ogni pezzo viene fatto aderire ricalcando la forma dell'aereo. Sarebbe una storia da intitolare I Tigi, come fossero un popolo antico o degli alberi secolari, e non dei pezzi di metallo sbriciolati e ricomposti. (…) “Itavia 870, autorizzato a Palermo via Firenze, Ambra 13, salga e mantenga livello di volo 190. Ripeta e chiami pronto al decollo”, I-TIGI, India Tago India Golf India, sarebbe il racconto in prima persona fatto dal metallo stesso, qualcosa che prima era un aereo, poi finì in fondo al mare e ne risorse, e fu di nuovo, dopo, un aereo, creatura metallica ricomposta; ma tra il suo essere aereo prima e aereo dopo non tutto torna, vengono meno un'ottantina di persone, tra passeggeri ed equipaggio. …
(…)“Padova buonasera, è la 870”, “Itavia 870, prosegua come autorizzato, richiami Firenze”. A strascico, sul fondale, la telecamera sottomarina intuì cinque lettere dell'alfabeto, I-TIGI, dipinte in vernice nera sul ventre dell'ala sinistra, e non ci fu più dubbio, i Tigi erano lì, la coda quattro chilometri più avanti della cabina di pilotaggio. (… )I Tigi riposavano lì, poco distante da una nave romana carica di vetri, da un vascello con cannoni del diciassettesimo secolo, da un caccia Messerschmitt della seconda guerra mondiale, memorie della storia del trasporto, museo involontario in fondo al mare. …
(…) “E' la 870, buonasera Roma”, “Buonasera 870, mantenga il livello 290, richiamerà sull'Ambra 13 Alpha”, “Sì, senta, neanche Ponza funziona?”, “Prego?”, “Abbiamo trovato un cimitero stasera, da Firenze in poi praticamente non c'era un radiofaro funzionante”, “In effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?”, “Manteniamo 195”, “Va bene, mantenga, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio”, “Bene, grazie” (…) I Tigi non tornarono su tutti insieme ma in più riprese a distanza d'anni (nel frattempo i pezzi rimasti laggiù si saranno sentiti abbandonati?), prima la cabina di pilotaggio fusa col carrello anteriore, l'ala destra, il reattore sinistro, elementi della fusoliera, il portellone di servizio anteriore, alcune paratie del vano bagagli, il voice recorder, sedili, salvagenti, frammenti minuti e piccolissimi. Così l'aereo nell' hangar si ricreò nel tempo, si aprivano le casse a mano a mano che arrivavano, si disponevano i pezzi sul cemento, si procedeva al riconoscimento dei reperti, si montava il grosso tronco di coda sui ponteggi, per la fusoliera si cominciava con le ordinate e i correntini della struttura, come la prima volta in fabbrica (…). E al ricombaciare dei pezzi, al loro ritrovarsi dopo anni e miglia di distanza e di separatezza, il colpo d'occhio non restituiva immediatamente l'accaduto, anche se ogni parte ne conservava la memoria, perché l'aereo così com'era adesso non é com'era in fondo al mare, e su quel disporsi, sulla mappa dei relitti in mare, cominciava la lettura e l'interpretazione, l'aereo s'era spezzato in volo, e ogni pezzo aveva proseguito la propria personale parabola da venticinquemila piedi a zero, oppure era sceso a motori spenti lacerandosi all'impatto, ed era l'impatto e solo quello ad aver prodotto ogni specifica ferita, e le correnti in aria e le correnti in mare ad aver prodotto la deriva. “Roma, buonasera, è l'Itavia 870”, “Buonasera Itavia 870, avanti”, “Centoquindici miglia per Papa Romeo Sierra, mantiene 250”, “Ricevuto Itavia 870, può darci uno stimato per Raisi?”, “Raisi lo stimiamo intorno ai 13”, “870 ricevuto, autorizzati a Raisi VOR, nessun ritardo è previsto. Ci richiami per la discesa”, “Per Raisi nessun ritardo, richiameremo alla discesa”, “E' corretto”. Forse per una questione di rispetto i sedili non vennero mai rimontati, l'interno dell'aereo era un tavolato disposto sull'intelaiatura del pavimento originale, per quanto s'era potuto ricostruire, sul quale era appoggiata la moquette, e sopra il tutto un tunnel costituito dalla fusoliera, sfondata all'aperto davanti e dietro. “Itavia 870, quando pronti, autorizzati a 110. Richiamate lasciando 250 e attraversando 150 ...Itavia 870?”. (…)
Col tempo arrivarono anche gli ultimi pezzi, l'ultimo frammento di correntino, l'ultimo pezzo stringer,, l'ultimo brano di rivestimento rivettato, i Tigi furono quasi completamente riuniti, quasi. E quando si riparte? “Itavia 870, qui è Roma, ricevete?...” Venne alla luce il flight recorder, e l'ultimo dei giubbetti salvagente, e l'ultima delle mascherine dell'ossigeno, e il telaio della porta anteriore con un finestrino della cabina piloti, e una pompa carburante, e un longherone con rivestimento e rivetti, e un seggiolino, e un portello con maniglia circolare, “Itavia 870, Roma...? Itavia 870, qui è Roma, ricevete?..”, e una scatola elettrica, e tre tubi oleodinamici, e una condotta schiacciata, un elemento di strumentazione, un martinetto con molla, un seggiolino con cintura, …
(…) “Air Malta, this is Rome”, “Rome go ahead, this is Air Malta”, “ Ok, sir, we have Itavia 870 unreported inbound Palermo, please, please try to call for us Itavia 870, try to call for us Itavia 870”, “Alitalia 870?”,”Itavia, sir, Itavia, Itavia 870”, “Roger … Itavia 870, Itavia 870 this is Air Malta. Do you read? ...Itavia 870, do you read? Do you read?...”)
Do you read?